Alcesti – Una Donna, da Euripide, dal 24 novembre al Teatro Litta.

MTM Teatro Litta –  dal 24 novembre al 4 dicembre 2022

ALCESTI – UNA DONNA

da Euripide – una riscrittura di Filippo Renda – regia Filippo Renda

 

con Beppe Salmetti, Filippo Renda, Irene Serini, Luca Oldani 

scene e costumi Eleonora Rossi –  suono Dario Costa –  luci Fulvio Melli

consulenza scientifica Maddalena Giovannelli – Fotografia manifesto Sara Meliti

direttore di produzione Elisa Mondadori

con il contributo di NEXT 2021 – produzione Manifatture Teatrali Milanesi/in collaborazione con Idiot Savant

Alcesti – una donna

Un accurato lavoro sulla trasformazione del testo, sulla scelta dei costumi e delle scene apocalittiche

4 attori in scena che interpreteranno 5 personaggi

62 giorni di lavoro

6 mesi di prove

Alcesti (in greco antico: Ἄλκηστις, Álkēstis) è una tragedia di Euripide, rappresentata probabilmente alle Dionisie del 438 a.C. (è la tragedia euripidea più antica giunta a noi).

La sua tetralogia tragica comprendeva anche le tragedie Le CretesiAlcmeone a Psofide e Telefo. Di solito, le tetralogie si concludevano con un dramma satiresco: in questo caso il suo posto fu occupato da una tragedia a lieto fine come Alcesti. Alcuni critici, spinti da questo particolare e da altri (ad esempio il tono un po’ farsesco del personaggio di Eracle) hanno ritenuto che l’opera non fosse affatto una tragedia, ma un dramma satiresco. Altri, invece, hanno considerato il dramma come una sorta di “fiaba”, in quanto Apollo, già nel prologo, ne annuncia il lieto fine.

Alcesti: la donna condannata a vivere

È ampiamente risaputo che l’esperienza delle rappresentazioni tragiche, per gli ateniesi, avesse un triplice valore; si inseriva in un momento della storia, probabilmente il primo, nel quale l’uomo si scontrava con la fallacia del concetto di “libertà”. La libertà era stata conquistata dagli ateniesi grazie a un senso di responsabilità e partecipazione e le rappresentazioni teatrali erano un esempio di esperienza collettiva, come il rapporto all’interno della tragedia tra eroe e coro riproduce quello tra individuo e comunità, indispensabile per la vita pubblica.

La conquista sensazionale della libertà riservava ai membri della polis un rovescio della medaglia che è il concetto stesso di tragico: la libera scelta tra due vie è solo un inganno, nessun individuo è libero di impedire alla propria vita di compiersi.

L’arte tragica diviene dunque una ritualizzazione che oggettiva il mistero del fallimento, della rovina, della condanna al di fuori della colpa.

L’esperienza della tragedia greca era quindi molto lontana dal valore che oggi, in occidente, diamo a qualsiasi forma di rappresentazione: non si assisteva a uno spettacolo, ma si partecipava a un rito nel quale il mito era la storia sacra del popolo. Contemporaneamente la tragedia era un fatto politico, che rinnovava l’approccio attivo di ogni cittadino alla vita pubblica. Infine le tragedie erano una gara, un evento agonistico non per alimentare ma per dare sfogo e sedare la competitività potenzialmente rovinosa insita nell’essere umano.

Nella tragedia forma e contenuto si intrecciavano quindi per rappresentare quel senso tragico che sostenesse i cittadini nelle paure generate dall’angoscia di un futuro imprevedibile, esorcizzando il senso precario della vita. Per questi motivi lo spettatore non deve concentrarsi sull’intreccio della trama o sui simboli in essa contenuti: il pubblico conosce il finale già dall’inizio del dramma, sa che l’eroe andrà incontro alla rovina e al fallimento e si aspetta che egli provi a impugnare la propria vita, accettando, ma non subendo il proprio destino. L’attitudine con cui l’eroe affronterà questa funzione e i modi in cui accetterà il proprio destino tragico diventano infine il centro del dramma.

 

Il dramma di Alcesti era chiaro agli ateniesi: si era macchiata di parricidio, e anche se il suo delitto era stato frutto di un inganno combinatole da Medea, la peliade, avendo compiuto materialmente l’omicidio, era ugualmente colpevole. Di fronte alla possibilità e alla volontà di pagare per una colpa che avrebbero ereditato anche i suoi figli, Alcesti era stata convinta a sposare Admeto e a trasferirsi nella sua reggia. È questo l’antefatto necessario a comprendere il percorso della protagonista del dramma, e il suo tentativo di liberarsi da una colpa che la schiaccia. Ma il destino condannerà Alcesti a vivere e ad accettare il proprio trauma.

 

Note di regia

“Mi sono avvicinato ad Alcesti attratto dallo scontro generazionale tra Fere-padre e Admeto-figlio sentendo passare dentro di me il grido di tanti miei coetanei che accusano i padri di non volersi fare da parte, di non volere lasciare spazio, di non decidersi ad andare in pensione, di non “morire” per i propri figli. Immerso in una generazione narcisista ed egoriferita non riuscivo a rendermi conto che accanto a me, che accanto ad Admeto, ci fosse una persona, una donna, che stava effettivamente rinunciando alla propria vita pur avendo tutto da perdere: marito, figli, giovinezza, bellezza, l’amore di un popolo intero. Non mi accorgevo che Alcesti stava provando a compiere una rivoluzione: inserita in un mondo di self-made men che non accettano che nulla si ponga in mezzo alla propria scalata, la peliade si occupa di proteggere chi ha attorno a sé, il marito, i figli, l’intera città; il suo gesto è di un eroismo rivoluzionario perché non mira a nessuna conquista. È per questo che fatichiamo a comprendere Alcesti e le sue scelte, perché siamo abituati a chiederci che cosa poter guadagnare dalle nostre scelte, e che dietro una rinuncia si nasconde sempre un profitto, e anzi più furbo, più “eroico” è chi meglio riesce a nascondere quel profitto.

Credo fortemente che questo testo vecchio di duemilacinquecento anni non parli ai miei contemporanei ma ai loro figli e che se potesse andare in scena tra una generazione splenderebbe in tutta la sua attualità, o almeno è quello che mi auguro, perché vorrebbe dire che il processo critico con cui stiamo cominciando ad osservare le nostre esistenze da consumatori avrà dato i suoi frutti.”

 

Filippo Renda

Il lavoro

In seguito a una prima fase di analisi e ricerca, la metodologia di lavoro che ho elaborato in questi anni richiede una fase residenziale di “prove di drammaturgia”. Il testo prende forma con gli attori, in un continuo stravolgimento delle dinamiche in esso contenuto seguendo i principi di logica e di realtà. Il testo antico diventa così drammaturgia contemporanea, cercando di salvaguardare la matrice, ma senza mai venirne schiacciati, in nome di un teatro che guardi al presente e non si rifugi nelle convinzioni e nei pregiudizi del passato.

Un percorso di drammaturgia contemporanea e di teatro d’autore non può quindi fare a meno di un periodo totalmente dedicato all’oggetto di studio e alle dinamiche relazionali degli artisti coinvolti nel progetto. Viviamo tempi di produttività compulsiva, nei quali uno spettacolo si allestisce in fretta e furia, si fa debuttare, ed è già vecchio. Ma il teatro non può essere risucchiato nella prassi della società della rivoluzione delle comunicazioni. Oggi comunicare è un gesto immediato, in qualsiasi circostanza e distanza; il teatro e l’arte hanno un altro Tempo – oggi rivoluzionario – e lo devono pretendere.

Peter Brook, ne “lo spazio vuoto” lo dice chiaramente. Per riuscire a creare la sua “Tempesta” il primo passo è stato sottrarsi dalla città e dagli “incastri”, e ritirarsi in residenza, in un luogo in cui altro non si può fare se non immergersi nell’oggetto di rappresentazione, provandone a carpirne ogni zona d’ombra.

Nel nostro processo artistico, la residenza con gli attori è un passo necessario per cercare di capire che cosa davvero stiamo cercando di mettere in scena: quella che nasce come un’idea scava i suoi percorsi e diventa tentativo di risposta a dei vuoti emotivi, a delle paure primordiali, a dei limiti invalicabili. Solo allora l’opera può nascere e abbandonare la propria dimensione puramente artigianale nella ricerca di un’unicità data, non dal tentativo di eliminare l’errore (come nell’artigianato), ma dalla sfida di percorrerlo e raccontarlo, come in una costellazione formata dalle proprie cicatrici.

E noi cerchiamo per davvero, non tanto risposte quanto domande, quelle del pubblico che si aggiungano alle nostre: può esistere un rapporto a due senza proiettare sugli altri le proprie paure? Qual è il patto iniziale e quando si trasforma in ricatto? Cosa succede alle cose nella corrente, dove vengono portate? e quando arriva la deviazione? Il corpo ha una sua violenza, parla con violenza? L’essere umano è un animale pacifico oppure la violenza fa parte di lui come l’amore, la passione, la gioia? Cosa accade se si rinnega il proprio istinto o se lo si lascia troppo andare? Quanto il confine tra vittima e carnefice è labile al di fuori dello stereotipo “uomo violento – donna violata”? Esiste un carnefice per ogni vittima? Qual è il punto di non ritorno?

 

Vogliamo sperimentare uno spazio in comunione con il pubblico. Lo spazio invita al movimento, produce un ritmo. La percezione non si fonda sulla sintesi di sensi diversi, ma implica un atteggiamento globale. Un colore può irradiare lo spazio tutt’intorno, un suono evocare una materia, una forma generare un gesto. Lo spazio agisce, l’attore reagisce. Noi vogliamo cercare di dare al coro un corpo, un volume, un respiro, farlo vivere al di là dell’estetica e della forma. Sperimenteremo il comportamento del corpo in relazione allo spostamento costretto, grazie allo sguardo periferico e all’attenzione ai comportamenti collettivi, per attivare la consapevolezza di un movimento generale: come mi muovo se mi adeguo all’andamento della folla? E se cerco di contrastarlo o sottrarmene, senza perdere la percezione del tutto? Come percepisco il suono della folla? E il rumore esterno? Tutto questo per arrivare ad una coreografia e polifonia.

 Bio Filippo Renda

Regista, 30 anni, muove i primi passi come assistente di Luca Ronconi in due produzioni del Piccolo Teatro di Milano, subito dopo essersi diplomato alla Scuola del Piccolo; in seguito lavora con Bruno Fornasari, Roberto Rustioni, Francesco Frongia e Renzo Martinelli e in molte produzioni firmate da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni. Ma soprattutto cura spettacoli di sua ideazione con cui gira molto, anche toccando festival come Primavera dei Teatri, Castel dei Mondi e Colline Torinesi e prodotto da realtà affermate come il Teatro della Tosse, il Teatro delle Donne, o la compagnia Maniaci d’Amore. Tra le sue regie Ghertruda, la mamma di A. è prodotto dal Teatro CTB di Brescia. Nel 2016 comincia un percorso sul teatro shakespeariano: il primo lavoro è Il Mercante di Venezia, prodotto da Elsinor Teatro Fontana di Milano, che ha un enorme successo, superando tutti i record di incassi del teatro. A giugno 2018, sempre con la produzione di Elsinor, mette in scena il Sogno di una notte di mezza estate. Dal 2018 comincia un percorso di drammaturgia contemporanea che corrisponde con la collaborazione con MTM Teatro Litta di Milano, per il quale è anche direttore del Festival di teatro indipendente “Hors”. Con la sua compagnia Idiot Savant ha messo in scena nove produzioni: tra queste lo spettacolo per ragazzi “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, già selezionato dal Festival Segnali, che si è recentemente aggiudicato il premio Piccoli Palchi dell’ERT di Udine.

Bio Idiot Savant

Formata da Matteo Gatta, Mauro Lamantia, Filippo Renda, Beppe Salmetti, Mattia Sartoni, Irene Serini e Simone Tangolo, Idiot Savant è un gruppo di ricerca dei linguaggi e delle tecniche teatrali nato durante la frequentazione della Scuola del Piccolo Teatro di Milano.

La collaborazione ha avuto inizio nel 2010, compiendo uno studio-divertissement su un testo di Filippo Renda. Da allora in poi la compagnia ha avuto come obiettivo quello di indagare innanzi tutto il ruolo del teatrante e di chiedersi che ruolo avere – o provare ad avere – in un rapporto da costruire col pubblico. La prima produzione è stata Shitz – Pane, amore e… salame, tratto dall’opera dell’autore israeliano Hanock Levin, che nel 2012 vince la menzione speciale al Premio Scintille e il premio come migliore spettacolo al Festival Fringe La Mama Spoleto Open. Le nostre altre produzioni sono state: Il Marito Smarrito, tratto da George Dandin di Moliere (2013, in coproduzione col Teatro Libero Incontroazione di Palermo); Alice, Cara Grazia (2013); Notturno, da “La casa del sonno” di Jonathan Coe (2014, in collaborazione col Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia); Il Complesso di Telemaco, tratto dall’omonimo saggio di Massimo Recalcati (2015); Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, dall’omonimo romanzo di Massimiliano Parente (2016); Il Mercante di Venezia (prodotto da Elsinor Sala Fontana), 2084, Apocalisse (2017), Il Sogno di una notte di mezz’estate (2018), Circeo, il massacro (2019). Il nostro primo spettacolo per ragazzi, La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati (2015) è stato selezionato per il festival Segnali e si è aggiudicato il Premio Piccoli Palchi di ERT FVG.

Teatro Litta

Da giovedì a sabato ore 20.30 – domenica ore 16.30

intero 25,00€ – convenzioni 20,00€, ridotto Arcobaleno (per chi porta in cassa un oggetto arcobaleno) 20,00€, Under 30 e Over 65 – 15,00€, ridotto bicicletta € 15,00; scuole di teatro e Università 15,00€, ridotto DVA 12,00€, scuole MTM, Paolo Grassi, Piccolo Teatro 10,00€, tagliando Esselunga di colore ROSSO, prevendita 1,80€

 

spettacolo inserito in Invito a Teatro – tagliando MTM

durata dello spettacolo: 75 minuti

 

Info e prenotazioni biglietteria@mtmteatro.it – 02.86.45.45.45

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Abbonamenti: MTM La cura e l’artificio, MTM La cura e l’artificio Over 65, MTM Carta Regalo x2, MTM Carta Regalo x4.

 

Biglietti e abbonamenti sono acquistabili sul sito www.mtmteatro.it e sul sito e punti vendita

vivaticket.it. I biglietti prenotati vanno ritirati nei giorni precedenti negli orari di prevendita e la domenica a partire da un’ora prima dell’inizio dello spettacolo.