Quel genio del Fabio Varese, il primo poeta milanese.

di Luis Balocchi

Nato a Varese verso la fine del ‘500, sì, ma d’in pressa venuto giù in quel de Milan. Lì, già d’allora, se valevi qualcosina, qualcuno,  nel bene o nel male, lo potevi diventare. Si dice, ché rare son le notizie del suo stare in questo mondo, il Fabio Varese abitasse a duu pass dal Verziere, el Verzee, allora il più esteso mercato di bancarelle e ròb de mangià dell’intera città. Un luogo, che nulla aveva a che fare con l’attuale Largo Augusto, intendiamoci; uno spiazzo vetusto, allora circondato dai vicoletti e dalle pusterle di quella che, il Luisin Carcano, definirà “gent minudra e de fadiga”. Dunque, il luogo ideale, essenziale, per chi, come il Fabio nostro, ha dalla sua la penna acuta e un naso, grande a tal punto, da usmare una ad una, le puzze, i triboli, i ràccul, i rògn, le poetiche miserie, della veggia gent de Milan.

Questo, difatti, fa. Usma e scrive. Ciò che ne vien fuori son parole, in forma di squinternata, novissima, poesia; parole che, per l’andazzo di quei tempi, son rivoluzionarie. Nessuno, prima di lui, aveva mai scritto così. Basta con l’Accademia parruccona! Va a l’ostrega il buon Parnaso! Fabio Varese vuol scrivere quel che vede, quel che sente, quel che pena e quel che vive. Lo fa nel suo milanes; il milanese di quei tempi, che, leggerlo al dì d’incoeu, si mastica un po’ a fatica. Ma il dado ormai è tratto! Fabio Varese è l’iniziatore di quell’idrante di poesia verista, legata alle cose di ogni dì, che, da allora in poi, sarà il marchio distintivo della poetica milanese. Lo fa sulla scorta di quel gusto tutto lombardo per le robe concrete, i crudi fatti, ciò che è, ciò che si fa: la realtà. Pressapoco nello stesso periodo, a dar prova di ciò, son le pitture bresciane dei Romanino, dei Moretto, dei Savoldo, come già, qualche anno prima, i “Rabesch” milanesi di quell’originale del Gian Lomazzo. E’ un mondo nostro, una cavagna creativa, in cui tutto vien giocato su tinte forti, carnali, grottesche, che bene danno il senso di ciò che intorno accade. Cosa accade al Fabio Varese? Peste e corna, se po’ dì! E di questo, il nostro, senza alcun pudore, urla e scrive. Scrive della fetida galera (“al è on quaj trenta dì che so’ in preson…”) che gli tocca di scontare, con tanto di spagnolesca tortura (“m’han già dagg trenta vult al fugh ai pé…”), accusato di far la spia per conto dei Francesi; fuori dai denti, dipinge un bel quadretto di quella che dice esser la sua casa, (“dond se ved nomà donn che lava strasg…e sui scar millj spegasc de merda…d’i mè visin…); o di una morosa che ha scoperto traditrice (va’ che hò fed da vedett no passa on mes dré l’Arcivescovaa su quji canton…piena de piogg, de rogna e mal frances…). Fabio Varese, un poeta maledetto? Si può ben dire. Di sicuro, a cà nòstra, è il primo a parlare di ciò che altri, per secoli, han nascosto sotto il tappeto del banale perbenismo. Un degno, milanesissimo, erede letterario, dell’osannato Villon. Peccato per lui che, invece de nass su la Rive Gauche, è vissuto e crepato a duu pass dal nòster vegg navilj. Con diversi e foresti natali, oggigiorno, il suo nome, il genio letterario lui proprio, non sarebbe, così com’è nella stessa sua Milano, del tutto dimenticato. Ah, desmentegavi! Dopo una vita di tal fatta, al nostro, non poteva certo mancare una fine migliore. Di Fabio Varese si perde traccia a partire dal 1630. Il che vuol dire che la grande ranza della peste di quell’anno, non ha avuto, per lui, alcun riguardo.

Videointervista a cura di Poetando – Luisa Cozzi