di Viviana Bazzani
La perdita di un figlio è il dolore più straziante che, una madre e un padre, possano vivere al dì là della nazione di appartenenza, al di là del credo e al dì là di una causa incomprensibile difficile da accettare. Ci siamo abituati ad ascoltare testimonianze di un popolo, quello ucraino, privato della loro libertà , delle loro città e delle loro case… Abbiamo imparato, attraverso i vari talk televisivi, a conoscere meglio il territorio ucraino, a parlare di regioni e paesi che, fino al 21 febbraio, sinceramente non sapevamo della loro esistenza.
Abbiamo ascoltato storie di uomini e donne rimasti nella loro terra per difenderla da un esercito invasore.
Ecco… un esercito!! E quando senti questa parole t’immagini uomini professionisti nel fare le battaglie, esperti nel maneggiare armi, esperti in tecniche di sopravvivenza, esperti in guerriglia accompagnati da un forte senso di appartenenza patriottica…..per poi scoprire un altra verità attraverso la voce di una mamma russa che ha perso, il 16 marzo, il proprio figlio di appena diciannove anni.
D – Ci parli di lei, di suo figlio, e della sua famiglia.
R – Innanzitutto ringrazio quelle persone che, attraverso mezzi non tecnologici, hanno fatto in modo di far arrivare a lei la mia testimonianza attraverso i racconti di mio figlio.
Sono nata e vissuta in una città nella regione Amur, sono una maestra e mio marito un operaio. Insomma una famiglia tranquilla con una vita semplice.
Mio figlio svolgeva la leva d’obbligo e, ironia della sorte, ad Aprile di quest’anno si sarebbe congedato per iniziare un suo percorso universitario. Mio figlio amava studiare la storia e non solo quella del nostro paese, mio figlio sognava di poter viversi il mondo e di crearsi una sua famiglia.
D – Come ha saputo, da suo figlio che sarebbe partito per la guerra?
R – La sera del 21 febbraio mi chiamò dicendomi che si trovava, da diversi giorni, al confine della regione Donbass. Mi tranquillizzo’ dicendomi che dovevano fare un “operazione di controllo” con l’intera compagnia dell’Armata della federazione. Non mi ero allarmata anche perché, le risate dei suoi amici in sottofondo, in qualche modo mi rassicuravano sull’atmosfera tranquilla che si respirava.
D – Quando ha iniziato a percepire che, qualcosa di poco chiaro, stava succedendo?
R – Fu la telefonata del 10 marzo, una chiamata che non dimenticherò mai per il resto della mia vita. Piangeva mi diceva che aveva molto freddo e tanta fame, inoltre, erano fermi da due giorni in una zona boschiva del nord-est del Donbass a causa di alcuni cingolati (cararmati) che attendevano pezzi di ricambio per ripartire. Ricordo che mi diede il numero di telefono di casa della mamma di un ragazzo proveniente dalla Siberia per avvisarla che il figlio era in guerra contro l’Ucraina. Fu in quella circostanza che sentii, per la prima volta, la parola guerra. Mi raccontò che erano tutti giovani di leva e nessuno, tranne alcuni colonnelli, erano di carriera accademica militare. Nel primo invio di giovani soldati molti provenivano dalle regioni confinanti con la Mongolia e tantissimi dalla siberia. La loro scelta fu pianificata, dai vertici, dovuto alla loro resistenza alle temperature bassissime.
Mi diceva – ” mamma siamo tutti giovanissimi e molti di noi non sanno guidare cararmati e utilizzare armi pesanti”. Era un fiume in piena il mio bambino, quasi avesse la percezione che quella potesse essere la sua ultima telefonata.
Continuò il suo racconto dicendomi che, il giorno prima un soldato russo di soli vent’anni si era rifiutato di sparare contro due persone anziane trovate in una vecchia casa di campagna.
Dennis, questo il nome del ragazzo sognava di diventare un prete ortodosso, e non ebbe il tempo di dare ulteriori spiegazioni al suo colonnello che, questi, gli sparo’ alla schiena colpendolo a morte. Piangeva disperato e scioccato mio figlio nel raccontarmi l’orrore che stava vivendo. Cercavo di tranquillizzarlo convincendolo che in pochi giorni tutto sarebbe finito…. poi cadde la linea e quella fu l’ultima volta che sentii il mio bambino.
Sì bambino.. pensi che si lamentava perché non gli cresceva ancora la barba.
D – Chi gli comunicò la morte di suo figlio?
R. – Ero a scuola mi chiamò una mia amica dicendomi che dei uomini in divisa erano davanti al portone della mia abitazione. Corsi verso casa, salii le scale, trovai la porta spalancata con mio marito che piangeva tra le braccia del nostro vicino di casa… io urlai e poi non ricordo più nulla!! A tutt’oggi mio figlio non ha avuto una degna sepoltura per le difficoltà nel riportare il suo corpo a casa sua, nella sua terra, tra i suoi amici di cui molti, morti anche loro.
D – Cosa dice la gente nel vedere questi giovani ragazzi morti in guerra. Hanno la percezione di quello che sta succedendo?
R – Ora iniziano a sapere, a capire ma hanno paura di esternare la loro opinione. Fate sapere a tutto l’occidente che si sta formando un nuovo esercito ” l’esercito delle mamme dei soldati bambini russi “
Ci facciamo sentire, raccontiamo urlando nelle piazze, perché noi non abbiamo paura. La polizia inizialmente ci disperdeva,poi, da pochi giorni ha l’ordine di chiuderci in casa con l’obbligo di non uscire.
Ma noi mamme non ci fermiamo, urliamo la morte dei nostri figli dalle finestre di casa nostra.
La mia famiglia ha sempre amato e sostenuto Putin, per noi era un bravo padre, oggi se avessi l’opportunità d’incontrarlo gli direi “hai sterminato una generazione, il futuro onesto e laborioso della Russia .
D – Cos’è per lei la guerra?
R – È il linguaggio dei cretini, la ricchezza dei potenti, le lacrime delle madri che non vogliono figli eroi ma, semplicemente figli con il diritto di vivere la vita.