Era convinto che si dovesse “intervenire e anche in modo drastico” dato che la “Lombardia stava peggiorando seriamente” e che fosse necessaria “una soluzione ancora più rigorosa e complessiva, non limitata ai soli due Comuni della Val Seriana”.
Così nel giugno di tre anni fa, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aveva ricostruito davanti ai pm di Bergamo che stavano indagando sulla gestione del Covid in Val Seriana, quei giorni tra il 5 e il 7 marzo, in cui la tensione era alta per l’impennata dei dati dei contagi in Lombardia.
Conte, allora sentito come persona informata sui fatti, e che da tre giorni si è ritrovato indagato nell’inchiesta bergamasca per epidemia colposa con l’accusa di non aver istituito la zona rossa in Val Seriana, ai magistrati che si erano recati da lui a Roma, in piazza Colonna, ha raccontato che il 5 marzo, al termine del Consiglio dei ministri “mi è stato riferito dal segretario generale di Palazzo Chigi che era pervenuta una mail” con allegata la bozza del decreto presidenziale con la “proposta di istituzione di zona rossa nei Comuni di Alzano e Nembro. Non ricordo esattamente le modalità e i dettagli, ma sicuramente c’è stato un confronto con il ministro Speranza”.
Con il quale aveva “convenuto di chiedere agli esperti un approfondimento sulle ragioni di questa proposta, alla luce del quadro epidemiologico di quei giorni che evidenziava un contagio ormai diffuso, in varie aree della Lombardia”.
L’approfondimento su Alzano e Nembro, ha aggiunto, “fu richiesto dal ministro Speranza” il quale la sera stessa “mi girò via WhatsApp la nota del prof. Brusaferro” e poi “firmò quella bozza” perché “mi anticipò che il giorno dopo avrebbe partecipato, a Bruxelles, a un incontro istituzionale (…) e quindi si convenì che per non ritardare il nostro intervento era bene che lui firmasse già” il provvedimento nel caso in cui “la decisione fosse stata confermata”. Ma quel “documento firmato non è mai stato nelle mie mani”.
Il giorno dopo, ossia il 6 marzo, in una riunione alla Protezione Civile, e con gli esiti degli approfondimenti richiesti “emerse l’orientamento degli esperti di una soluzione ancora più rigorosa e complessiva, non limitata ai solo due comuni della Val Seriana”. Il 7 marzo fu elaborata una nuova bozza di Dcpm. L’8 marzo venne creata una zona arancione che comprendeva Regione Lombardia e altre 14 province e il 9 marzo fu decretato il lockdown.
Anche per Speranza, pure lui passato da teste a indagato ma per la mancata attuazione del piano pandemico, “non si riteneva più possibile contenere la diffusione del virus in aree circoscritte. C’era invece bisogno – aveva messo a verbale nel giugno 2020 – di misure rigorose che però avrebbero dovuto riguardare un’area molto più vasta”. Davanti agli inquirenti e agli amministratori l’ex ministro, ai tempi in quota al Pd e ora leader di Articolo 1, ha ricordato di aver parlato della situazione di Nembro e Alzano con Conte il 4 marzo mentre ha negato di aver mai saputo prima, in particolare in riferimento a un verbale del Cts del 26 febbraio, se in Lombardia, dopo i 10 comuni del Lodigiano, ci fossero altre aree che era opportuno delimitare ai fini della quarantena. Inoltre sia Conte che Speranza hanno dichiarato ai pm di non aver ricevuto alcuna richiesta di istituire la zona rossa in Val Seriana da Regione Lombardia, al contrario di quello che ha sostenuto il Governatore Fontana (anche lui indagato). Tra le carte dell’inchiesta di Bergamo spuntano anche alcune chat tra Speranza e i suoi tecnici. In particolare discutendo con il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, sulle indicazioni per le mascherine è stato categorico “decide l’Oms, non i sindacati” dei medici. E poi a proposito di quelle “swiffer” è sbottato: “Sono terrorizzato da questa cosa delle mascherine”.
Agli atti dell’indagine c’è anche il quadro impietoso tracciato da Andrea Crisanti, il microbiologo ora senatore del Pd, che nella sua consulenza non ha fatto sconti a nessuno, nemmeno all’ex ministro che bene o male appartiene alla sua stessa area politica. Oltre ad aver rilevato che per “16 anni”, dal 2004 al 2020, non è “mai stata intrapresa una singola attività o progetto” per “valutare lo stato di attuazione del Piano Pandemico Nazionale” poi ‘scartato’ da Speranza e dai suoi tecnici senza che nemmeno lo avessero letto, ha sottolineato che non ci fu alcuna verifica sullo “stato di preparazione dell’Italia nei confronti del rischio” di una pandemia. E infine ha offerto una ricostruzione ben diversa sulla vicenda della zona rossa: nei giorni 27 e 28 febbraio 2020 “il Cts e il ministro Speranza hanno tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo” fosse “di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico”. E le “informazioni sulla gravità della situazione” ad Alzano e Nembro furono oggetto di una riunione del Cts del 2 marzo “non verbalizzata ufficialmente” alla presenza “del ministro Speranza e del presidente Conte”. (ANSA)